domenica 3 giugno 2012

L'insulto sul lavoro è violenza privata.

VENERDÌ 1 GIUGNO 2012

L'insulto sul lavoro è violenza privata.

Commette il reato di violenza privata il datore di lavoro, che, in modo sistematico, intenzionale e non giustificato, aggredisca verbalmente propri dipendenti. Si è espressa in questo senso la sesta sezione della Cassazione penale con la sentenza 12517 del 3 aprile scorso.
La vicenda è quella di una donna impiegata in un piccolo calzaturificio, assunta in base alla legge 68/1999 («Norme per il diritto al lavoro dei disabili»). Come si legge nella sentenza, il rapporto lavorativo si rivela, sin dall'inizio, difficile. Nei tre anni successivi, il titolare e suo padre, entrambi gestori dell'attività, insultano e offendono di continuo la dipendente, accusandola di non amare il lavoro e di essere «lavativa». Il 23 e il 24 luglio 2002, la lavoratrice disabile subisce due aggressioni verbali, la prima perché ritenuta lenta nel lavoro e la seconda con l'accusa di non saper lavorare.
La dipendente dà quindi inizio a una causa penale, in cui al titolare sono contestate non solo le ingiurie ma anche l'estorsione: la lavoratrice sostiene che il datore le avesse fatto firmare una busta paga con importo maggiorato rispetto a quanto corrisposto. Al padre del titolare è invece mossa solo la prima accusa. In corso di giudizio è, peraltro, analizzata anche la condotta lavorativa della donna, che non evidenzia fatti negativi.
I due gradi di merito, tuttavia, si concludono con la condanna degli imputati, non per i reati sopra citati, ma per quello di «maltrattamenti in famiglia» previsto dall'articolo 572 del Codice penale. È bene segnalare che questo reato, consistente nella ripetizione di fatti offensivi dell'onore e dell'incolumità fisica del soggetto passivo e legato, in origine, al solo ambito familiare, è stato talvolta ritenuto idoneo dalla Cassazione a sanzionare anche vessazioni in ambito lavorativo (in uno dei primi casi, con la sentenza 218201/2001 e, più di recente, con la sentenza 33624/2007).
Gli imputati, non convinti dai giudici di secondo grado, ricorrono in Cassazione, che offre un'interpretazione diversa da quella di appello: essendo emerse «sistematiche, intenzionali e non giustificate aggressioni verbali», il reato compiuto dai due è la «violenza privata», previsto all'articolo 610 del Codice penale, consistente nel costringere la vittima a tenere un comportamento non voluto, per di più aggravato dalla circostanza, indicata all'articolo 61, n. 11, del rapporto di autorità esistente tra datore e lavoratore. Secondo i giudici di legittimità, per il sussistere del reato di «maltrattamenti in famiglia», non basta, infatti, che una condotta sia attuata in un rapporto di lavoro, ma è necessario che si versi in una situazione «para-familiare», cioè con abitudini di vita lavorative simili a quelle delle comunità familiari, mancanti nel caso specifico.
Nei fatti, con questa decisione, i giudici sanzionano la condotta di mobbing, ma consolidano un orientamento, prevalente in Cassazione, contrario all'applicazione, nella maggior parte dei casi di mobbing sul lavoro, del reato di «maltrattamenti in famiglia» previsto dall'articolo 572 del Codice penale. Ciò non solo nelle realtà aziendali grandi, ma anche in quelle piccole.

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